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Lo scorso 17 ottobre la Mare Jonio è stata sottoposta a fermo amministrativo e al pagamento di una multa fino a 10.000€ per non essersi coordinata con la cosiddetta guardia costiera libica e per non aver chiesto un porto di sbarco in Libia per le 69 persone soccorse durante la seconda operazione della 14esima missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Nelle prossime settimane il Tribunale di Trapani deciderà sul ricorso presentato da Mediterranea riguardo al provvedimento che ha colpito Mare Jonio.
Di seguito pubblichiamo due articoli di Alessia Candito di Repuublica, in data rispettivamente 19 ottobre e 19 dicembre, in cui vengono riportate le testimonianze delle persone soccorse dalla Mare Jonio, raccolte dal medico di bordo Francesco Nastasio.
Parla Francesco Nastasio: “Almeno il sessanta per cento dei naufraghi che ho visitato presentano segni di violenze recenti e pregresse”
Alessia Candito su Repubblica - 19 ottobre 2023
“In Libia sei una cosa, quando arrivi a pesare trenta chili, non servi più e i carcerieri capiscono che non guadagneranno più un soldo da te, ti fanno uscire. Ma di fatto sei già morto”. Nishan oggi ha vent’anni, ma nei quattro passati in Libia, più volte ha pensato di non arrivarci mai. Per sette volte ha tentato la traversata, per sette volte è stato intercettato, per sette volte ha dovuto affrontare il girone infernale della detenzione nei lager. Potrebbe non parlare, lo fanno le sue cicatrici e le ferite. “Almeno il sessanta per cento dei naufraghi che ho visitato presentano segni di violenze recenti e pregresse”, spiega Francesco Nastasio, il medico a bordo della Mare Jonio.
La nave dell’ong Mediterranea è arrivata ieri al porto di Trapani e lì dovrà stare ferma per venti giorni perché colpevole – ha stabilito la capitaneria, sulla base di un documento arrivato direttamente dal Viminale – di non aver chiesto coordinamento e “porto sicuro” alla Libia. Che tale non viene considerata né dalla Farnesina, né dalla Commissione Europea, né dalle Nazioni Unite. E di certo non dai naufraghi, che sul corpo e nella mente portano i segni dei mesi, se non degli anni passati lì. “Ferite lacero contuse infette e non, fratture scomposte, limitazioni alla funzionalità di arti”: il dottore Nastasio elenca i casi trattati, ma dietro ogni paziente, spiega, ci sono storie di violenze, soprusi, abusi, mutilazioni. A Efrem ogni giorno spezzavano un dito diverso del piede, racconta il medico, che durante la visita ha notato subito quegli arti martoriati e deformati da fratture che nessuno ha mai curato. “Volevano che chiamassi la mia famiglia per farmi mandare dei soldi”, ha spiegato. Altri segni che porta addosso raccontano invece della violenza della polizia tunisina, che lo ha sorpreso mentre attraversava il confine e per questo lo ha punito.
“Mi hanno massacrato di botte - ha raccontato al dottore - poi mi hanno obbligato a tornare indietro”. In Libia. Dove basta essere straniero e camminare per strada per essere sequestrato e imprigionato, in un lager ufficiale con l’accusa di “ingresso illegale nel territorio del Paese” o ufficioso, dove non serve neanche un pretesto giuridico per essere tenuto prigioniero. Torture e violenze sono una costante in entrambe.
Moussa la mano destra la muove più. Gliel’hanno letteralmente carbonizzata obbligandolo a immergerla tra le braci, mentre in videochiamata contattavano la famiglia per costringerla a pagare il riscatto. Che fossero pronti anche ad andare oltre, anche a togliergli la vita, lui, 22 anni appena, ne ha avuto prova concreta quando lo zio con cui aveva iniziato il lungo viaggio dal Sudan è stato ammazzato davanti ai suoi occhi, la testa aperta in due da una sprangata. Si muore nelle carceri libiche. Per le torture, per le violenze, per fame e stenti. Perché diventi un monito. Un ragazzo sudanese che insieme agli altri ha tentato la fuga dal lager di Al Assah – hanno raccontato alcuni sopravvissuti al medico di bordo della Mare Jonio – è stato bruciato vivo davanti a tutti. Quell’omicidio atroce doveva essere un esempio e oggi è incubo ricorrente per chi è stato costretto ad assistere impotente.
“Le ferite visibile sono state tutte trattate, ma ognuna di queste persone porta dentro di sé traumi che non si vedono e che nel poco tempo e con gli strumenti che abbiamo a bordo non possono essere trattate”, spiega il dottore. Ci vuole tempo, pazienza e un ambiente consono perché i lividi dell’anima e della mente vengano fuori. Per molti, parlare è una liberazione. Per altri, è necessario aspettare prima che le cicatrici da arma da fuoco, da taglio, da oggetti contundenti più o meno affilati diventino racconto degli “atti di deliberata violenza” – così li chiama il dottore – che ci sono dietro.
“La traversata in mare è pericolosa, ma vivere lì lo è molto di più”, hanno spiegato in tanti a bordo, come in tanti ripetono a Lampedusa, a Pozzallo, sulle coste calabresi dopo lo sbarco. “Meglio rischiare di perdere la vita una volta che farlo ogni giorno in Libia”. Un inferno a cui secondo Roma – a dispetto persino di sentenze, anche definitive, dei tribunali italiani – i naufraghi avrebbero dovuto essere riconsegnati da Mare Jonio. Che per aver disobbedito adesso ondeggia ferma in porto.
La nave di Mediterranea è stata sanzionata per non aver riportato i naufraghi a Tripoli
Alessia Candito su Repubblica - 19 dicembre 2023
Bir al Ghanam, Zuara, Ghariyan, Warschafana, Zawiya: nelle carte che Mediterranea ha depositato a Trapani per contestare il fermo della nave dopo l’ultima missione c’è anche la mappa dell’orrore in Libia. Sono i nomi delle prigioni formali e informali in cui la maggior parte dei naufraghi salvati sono stati detenuti, abusati, picchiati, costretti ai lavori forzati. E c’è il nome di uno dei ‘signori dell’orrore’, Abdul Sattar, padrone del lager di Warschafana, prigione privata controllata dalle milizie in Libia. Lì dove secondo la Capitaneria di porto, la Mare Jonio avrebbe dovuto dirigersi, dopo aver chiesto porto sicuro ed istruzioni. Peccato che lo stesso Viminale non la consideri Paese sicuro, decine di sentenze sanzionino i respingimenti di fatto in Libia e ormai non si contino i report dell’Onu o sue agenzie che affermino nero su bianco che ormai la violazione dei diritti umani lì sia un’industria.
“Qualora i naufraghi, possano essere qualificati anche come migranti/rifugiati/richiedenti asilo, destinatari quindi delle tutele e procedure di protezione internazionale, il concetto di luogo sicuro si arricchisce di ulteriori requisiti, legati all’esigenza di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalle norme internazionali sui diritti umani”, stabilisce il giudice di Agrigento nell’accogliere la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura per comandante e equipaggio della Mare Jonio, già in passato finiti sotto accusa per essersi rifiutati di consegnare i naufraghi alle motovedette libiche. Una scelta, afferma il magistrato, che in realtà è atto dovuto, “ritenuto che la Libia non possa essere considerata porto sicuro”.
Al riguardo pesa quanto affermato da Unhcr che in una nota dispone che “ai comandanti che si trovano ad assistere persone in situazioni di emergenza in mare, non può essere chiesto, ordinato e gli stessi non possono essere costretti a sbarcare in Libia le persone soccorse, per paura di incorrere in sanzioni o ritardi nell’assegnazione di un porto sicuro”. Stessi principi fatti propria dalla Cassazione nell’assolvere definitivamente la comandante di Sea Watch, Carola Rackete: “la nozione di luogo sicuro non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali”.
E che non si tratti di situazione che nel corso del tempo sia cambiata lo dimostrano le testimonianze dei naufraghi che Mare Jonio nel corso dell’ultima missione ha soccorso. Ragazzi come Ibrahim, trentaduenne sudanese. Cosa sia davvero Warschafana l’ha vissuto sulla propria pelle, che ancora porta i segni – documentati nella relazione del medico di bordo – delle regolari sessioni di tortura, delle bastonate che tre volte al giorno venivano somministrate con la regolarità che i pasti non avevano, delle ferite da arma da fuoco mai medicate, né curate oggi accartocciate in cicatrici estese. Non è un unicum, un caso. È la regola. E Warschafana è incubo, strumento di ricatto.
Nour, eritreo oggi di 23 anni, è stato intercettato mentre tentava la traversata, trascinato e imprigionato nel carcere di Zouara. Da lì, come da altri lager si esce solo pagando l’equivalente di cinquecento euro. Per costringere famiglia e amici a mandarli torture, botte e abusi vengono filmati, inviati ai propri cari fuori dalla prigione. Ma sono somme impossibili da mettere insieme per chi ha come unica via d’uscita una traversata a rischio vita in mare. E allora si finisce nel regno di Abdul Sattar e da lì nessuno ha la certezza di uscire vivo. “Il mare è estremamente pericoloso, ma vivere in Libia lo è di più. Preferiamo rischiare di morire che continuare a vivere in Libia”, ha detto al medico di bordo Baba, sudanese di ventisette anni, soccorso dalla Mare Jonio al suo sesto tentativo di traversata. Solo una volta è riuscito a fuggire dopo esser stato riportato indietro dalle motovedette dei libici. Tutte le altre è finito in un lager, dove per mesi è stato torturato. Si esce pagando un riscatto, “quando ormai pesi trenta chili e non servi più a nulla perché sei prossimo alla morte”, o con mesi o anni di lavori forzati. Lo raccontano mani e arti deformati dal lavoro o da bastoni e spranghe, lo confermano menomazioni, invalidità, traumi estesi.
E Warschafana non è l’unico lager a cui si rischia di non sopravvivere. Ousman è stato imprigionato prima a Bir al-Ghanam poi ad Al Assah. “Un gruppo di ragazzi – ha spiegato al medico di bordo della Mare Jonio – ha provato a fuggire, ma sono stati catturati. Hanno preso uno di loro, un ragazzo sudanese, lo hanno cosparso di benzina e gli hanno dato fuoco”. A quella barbarie tutti hanno dovuto assistere. Perché era messaggio, monito per tutti. E adesso è elemento anche per il Tribunale che dovrà decidere se è stato legittimo bloccare per venti giorni Mare Jonio per non aver riportato 69 persone in quell’inferno.