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Ieri 20 giugno è iniziata la fase operativa del progetto “Mediterranea with Palestine”, con l’arrivo dellǝ primə attivistǝ di Mediterranea Saving Humans ad At-Tuwani.
A febbraio 2024 Mediterranea Saving Humans ha effettuato una missione esplorativa a fianco di Operazione Colomba e Youth of Sumud. Da quel momento ha lavorato costantemente interrogandosi su come essere presente ed operativa in Cisgiordania.
Decine di attivistǝ hanno partecipato ad una specifica formazione e offerto la loro disponibilità per permetterci di essere tra le realtà internazionali che in Palestina ed in particolare nella Masafer Yatta (l’area rurale a sud di Al Khalil/Hebron) documentano e si oppongono alle continue violazioni dei diritti umani compiute dalle forze di occupazione, ovvero coloni ed istituzioni israeliane.
Il progetto prevede una turnazione sul campo di due attivistǝ ogni circa 12 giorni fino a metà settembre. In questo tempo lǝ attivistǝ vivranno la realtà di una zona rurale che da più di 50 anni resiste sotto occupazione israeliana.
Nei prossimi tre mesi, saremo dunque nel villaggio di At-Tuwani per affiancare la popolazione civile palestinese attraverso l’interposizione contro le forze di occupazione israeliane e per garantire la presenza di un osservatorio internazionale costante. Il nostro ruolo sarà quello di sostenere e partecipare al lavoro di Youth of Sumud e Operazione Colomba con l’obiettivo comune di favorire e supportare lo sviluppo del movimento di resistenza nonviolenta palestinese e la sopravvivenza della comunità (circa 1.200 persone in 10 villaggi) continuamente vessata dalle forze di occupazione, che hanno già costretto parte della popolazione ad andarsene e hanno provocato diversi episodi ad alta violenza.
In questo senso, come Mediterranea, scegliamo di essere strumento a disposizione di una popolazione che ha deciso di mettere in atto una forma di resistenza dal basso e nonviolenta. Non andremo quindi a imporre un nostro progetto, ma diventeremo parte integrante di un percorso decennale che nasce dalla popolazione di At-Tuwani e nel quale noi troviamo riflesso della nostra identità come organizzazione. Mediterranea ha deciso di essere al fianco della popolazione civile, coerentemente con quanto sta facendo anche ora in alcuni dei purtroppo numerosi contesti nei quali avvengono negazioni dei diritti umani.
Da decenni il popolo palestinese subisce un’oppressione sistematica da parte delle forze di occupazione israeliane. Questa consiste in capillari azioni di violenza, appoggiate da istituzioni parte di quello che è diventato sempre più un regime di apartheid. Azioni che si sostanziano in quella che é di fatto una lenta ma costante conquista territoriale con l’obiettivo finale di mettere in atto una pulizia etnica ai danni della popolazione palestinese e ultimare il processo di Nakba (catastrofe e diaspora) palestinese.
Dopo l’ingiustificabile massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas ai danni della popolazione israeliana, in cui hanno perso la vita più di 1.200 persone e 253 sono state prese in ostaggio, la reazione dello Stato di Israele è stata disumana e omicida.
Il numero di morti, a seguito degli attacchi delle forze armate israeliane, ha raggiunto al 6 giugno le 37.084 vittime e questa situazione insostenibile è andata indubbiamente ad acuirsi anche in Cisgiordania.
In questi mesi, la nostra comunità si è confrontata in varie occasioni; l’escalation di violenza ci ha portato collettivamente a condividere, pur con diverse sensibilità e diverse interpretazioni, una spinta unanime ad esprimerci come associazione e ad agire per essere a fianco di chi è oppressǝ, come sempre Mediterranea sceglie di fare.
La Palestina non ci ha mai visto fino ad ora operare sul territorio come associazione, ma moltǝ nostrǝ attivistǝ si sono in passato attivate direttamente, sia individualmente che all’interno di realtà sociali, al fianco della lotta del popolo palestinese.
Decidere di esserci per questi primi tre mesi significa farsi strumento di una resistenza dal basso e strumento a sua volta di chi si trova sul campo a supportarla da 20 anni.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) riporta che l’intera popolazione nella Striscia di Gaza sta sopportando livelli di insicurezza alimentare acuta: la metà soffre di insicurezza alimentare catastrofica e da qui a luglio il 92% in più della popolazione potrebbe scivolare verso livelli gravissimi di malnutrizione; l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) riporta già ora il decesso di minori per questo motivo.
Con l’ordinanza n. 192 del 26 gennaio 2024 la Corte internazionale di Giustizia, ha adottato misure cautelari nei confronti dello stato di Israele, accusato con ricorso del Sudafrica di violazioni della Convenzione contro il crimine di genocidio.
Il 20 maggio 2024 il Procuratore Capo del Tribunale Penale Internazionale ha ipotizzato l’esistenza di crimini di guerra da parte di Israele e di Hamas chiedendo al Tribunale l’emissione di mandati di cattura per il premier Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa Yoav Gallant e per i leader di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh e Diab Ibrahim Al Masri.
Ricordiamo che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a livello di capi di stato e di governo, con la Risoluzione 60/1 del 16 settembre 2005 ha stabilito che “(…) La comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità di utilizzare adeguati mezzi diplomatici, umanitari e altri mezzi pacifici, in conformità con i Capitoli VI e VIII della Carta, per aiutare a proteggere le popolazioni da genocidi, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità”.
Per quanto riguarda la Cisgiordania, secondo i rapporti dell'OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari), dall'inizio del 2023 ad oggi, si sono verificati oltre 4.500 incidenti, tra cui demolizioni di abitazioni, confische di terre, violenze, furti e danneggiamenti. Questi attacchi hanno causato gravi violazioni dei diritti umani e hanno reso sempre più difficile la vita quotidiana per molte comunità palestinesi, costrette sempre più frequentemente, direttamente o per mancanza di alternative, ad abbandonare la propria terra e la propria casa.
Allo stesso tempo, l'Italia continua ad esportare armi in Israele, nonostante la situazione di conflitto in corso. Infatti, “nell’ultimo trimestre del 2023, l’Italia ha esportato armi e munizioni verso Israele per un valore pari a 2,1 milioni di euro, rappresentando il terzo paese per volume d’affari, dopo Stati Uniti e Germania. Solo a dicembre, ormai nel pieno dei bombardamenti da parte dell’esercito e dell’aeronautica militare israeliani sulla Striscia di Gaza, con catastrofiche conseguenze per la popolazione civile, l’export italiano ha toccato quota 1,3 milioni di euro, facendo segnare così il picco del periodo (contro i 233.025 euro di ottobre e i 584.511 di novembre)”.
L’Italia e l’Europa non beneficiano solo del ricavato delle esportazioni ma utilizzano anche tecnologia e know-how israeliano per pattugliare confini di terra e di mare.
Non a caso, Israele è uno degli Stati terzi che fornisce il maggior numero di materiale e tecnologia bellica utilizzati per rafforzare un sempre più preoccupante processo di militarizzazione delle frontiere e degli Stati europei.
Il caso dei droni “Heron”, prodotti da due aziende israeliane e forniti a Frontex per individuare e respingere le persone in movimento, è l’esempio più eclatante di questo tipo di accordi. E anche in questo caso, le grandi aziende della guerra italiane, con Leonardo s.p.a. in testa, continuano a fare affari con aziende israeliane complici della violenta occupazione in Palestina.
Mantenere uno stato di occupazione costante, stipendi, acqua, luce e gas per 700.000 persone e salari e risorse per militari e forze di polizia ha un costo enorme, che lo Stato di Israele può sostenere solo grazie alla complicità anche del nostro Governo. In quanto cittadinǝ di un paese membro dell’Unione Europea e parte della NATO rischiamo di essere corresponsabili delle scelte compiute dai nostri Governi che avallano questi crimini e del silenzio delle nostre istituzioni nonché della normalizzazione dei rapporti con Israele e con aziende che hanno sede nei territori occupati.
Pur in contesti e con dinamiche differenti, è evidente come l’obiettivo dello Stato israeliano sia quello di privare di ogni diritto donne, uomini e bambinǝ palestinesi e cacciarlǝ dalle loro terre con ogni forma di violenza e sopraffazione.
Se nella Striscia di Gaza questo proposito si concretizza in azioni genocide (bombardare, attaccare e far morire di fame la popolazione civile, colpire i convogli e il personale umanitario, giustiziare a sangue freddo persone innocenti e disarmate), la politica dello Stato di Israele si esprime in Cisgiordania come regime di permanente discriminazione e una lenta e costante pulizia etnica, che il 7 ottobre ha solamente accelerato, esasperando le dinamiche di oppressione che le forze di occupazione attuano da decenni nei confronti della popolazione palestinese.
Secondo gli accordi di Oslo del 1993 tra Israele e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), la Cisgiordania è suddivisa in tre aree, A, B e C:
- Zona A: questa area è sotto completo controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), sia per quanto riguarda la sicurezza che l'amministrazione civile. Comprende circa il 18% della Cisgiordania, inclusi i principali centri urbani palestinesi come Ramallah e Nablus.
- Zona B: in questa zona, l'ANP ha il controllo civile, ma la sicurezza è condivisa tra l'ANP e Israele. Copre circa il 22% della Cisgiordania e include molte città e villaggi palestinesi.
- Zona C: quest'area è sotto il completo controllo israeliano, sia civile che militare. Copre circa il 60% della Cisgiordania e comprende gli insediamenti israeliani, le terre agricole e le aree di sviluppo strategico, nonché la maggior parte delle risorse naturali.
La zona di Masafer Yatta e il villaggio di At-Tuwani si trovano in zona C.
Le città e villaggi della Cisgiordania in zona A sono di fatto isolate, circondate da un mare che decide di aprirsi o chiudersi a piacimento, selezionando per chi far scorrere l’acqua e a chi serrare i rubinetti sulla base di un passaporto e un pregiudizio.
Dal 7 ottobre la situazione, già molto difficile per la popolazione civile, è gravemente peggiorata anche nei Territori Palestinesi Occupati della Cisgiordania e a Gerusalemme Est, a causa delle continue incursioni dell’esercito e degli assalti da parte delle milizie armate di coloni israeliani.
Gli attacchi delle forze di occupazione israeliane in Cisgiordania hanno causato 517 vittime civili, inclusi donne, bambini e anziani. Sempre secondo i dati dell'OCHA , ci sono stati oltre 4.500 incidenti di violenza perpetrati dai coloni contro la popolazione palestinese nell'anno passato in Cisgiordania, con un aumento del 78% rispetto all'anno precedente, e una media di 3 Palestinesǝ feritǝ ogni settimana nel 2023. La continua espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania (oltre il 10% della popolazione totale di Israele, circa 700.000 persone), in ulteriore aumento dal 7 ottobre 2023 ad oggi, ha comportato una maggiore oppressione e discriminazione delle comunità palestinesi locali, costringendo molti uomini, donne e bambinǝ e comunità ad abbandonare la propria terra d’origine. Il governo israeliano ha inoltre annunciato la costruzione di migliaia di nuove unità immobiliari illegali.
In tutta la Cisgiordania, ma in particolare nella zona di Masafer Yatta (essendo anche in parte stata definita arbitrariamente “firing zone” cioè come una “zona militare chiusa” teoricamente riservata a esercitazioni a fuoco, proprio per giustificare ulteriori appropriazioni di terre), i coloni agiscono sistematicamente al fine di rendere impossibile la quotidianità della vita della comunità palestinese con l’obiettivo, da un lato, di impedire l’accesso e la fruizione delle fonti di sostentamento (impedire la raccolta delle olive, minacciare e attaccare costantemente pastori e greggi, uccidere capre e pecore, avvelenare i campi, danneggiare cavi elettrici e tubature), dall’altro di colpire e spaventare direttamente le persone (colpendo lə bambinə nella strada verso la scuola, minacciando, ferendo e, nei casi più gravi, uccidendo lǝ civilǝ). Gran parte della locale popolazione palestinese ha titoli di proprietà riconosciuti dallo Stato di Israele sulle proprie case e sui propri terreni e pertanto i coloni, con la connivenza delle istituzioni, utilizzano ogni mezzo per occupare illegalmente le proprietà dei palestinesi per poi definire ulteriori confini e cacciarli infine dalle loro abitazioni in diversi modi: dal piantare una bandiera di Israele, che per le “leggi” dell’occupante non può essere toccata, all’accusare la popolazione palestinese di reati inesistenti, piantando pali di confine da un giorno all’altro per creare nuovi limiti illegali e richiederne la legittimazione (si pensi che solo dopo tre anni che un terreno non viene coltivato lo Stato di Israele ne acquisisce direttamente il possesso).
Quando l’esercito e la polizia israeliana, responsabili della sicurezza in zona C anche per la popolazione palestinese, vengono chiamati per intervenire a fronte di reati compiuti dai coloni, in genere o non intervengono in alcun modo o sanzionano invece la popolazione palestinese, accusandola di creare problemi e facendo fede alle menzogne dei coloni che affermano di essere stati loro vittime di un attacco.
Il “Sumud” (Perseveranza in arabo) portato avanti dalla popolazione civile palestinese e in particolare di At-Tuwani è una lotta per tuttǝ noi. Una lotta che significa affermare che nessunǝ può, solo perchè ne ha la forza, occupare la terra di un’altra persona, scacciarla dalla propria casa, impedire a lei e allǝ suǝ figliǝ di studiare, crescere, giocare, vivere.
Youth of Sumud e il movimento di resistenza nonviolento di At-Tuwani e delle colline a sud di al-Khalil (Hebron), stanno lottando per tuttǝ noi, ogni giorno uscendo a coltivare gli ulivi, pascolando le greggi, accompagnando lǝ figliǝ a scuola, dormendo con le famiglie più colpite, documentando e denunciando ogni giorno le azioni delle forze di occupazione, bevendo un tè ogni giorno assieme, programmando quella che è, con le parole della comunità che compie tutti i giorni queste azioni, la vera resistenza: continuare a esistere.
Oggi Gaza riempie i notiziari e i nostri social, ma mentre per noi intervenire direttamente in una enclave assediata risulta in questo momento impossibilie, vogliamo e possiamo essere presenti a supporto della popolazione palestinese in Cisgiordania, rispondendo a una loro richiesta di affiancamento assieme ad Operazione Colomba, che da 20 anni è l’unica realtà internazionale che condivide 365 giorni l’anno la quotidianità con la comunità delle colline a sud di Hebron, attuando pratiche di interposizione nonviolenta e utilizzando il proprio “privilegiato” passaporto (come internazionali ad esempio si può essere arrestati solo dalle forze di polizia, non da esercito o forze paramilitari delle colonie), le proprie telecamere, le proprie voci, la propria presenza a fianco dellǝ bambinǝ che vanno a scuola, dei pastori, dei contadini, nelle aule di tribunale a testimoniare la falsità delle dichiarazioni dei coloni.
In un contesto di guerra civile globale, in cui tanti conflitti locali sono caratterizzati da altissimi livelli di violenza, che colpisce soprattutto la popolazione civile, la resistenza nonviolenta è una scelta di diserzione.
Disertare una visione del mondo in cui la morte è uno strumento politico, le persone sono solo numeri disumanizzati e le violazioni dei diritti umani sono solo un danno collaterale.
Come Mediterranea, quasi 6 anni fa abbiamo deciso di comprare una nave e disertare in mare. Ora rinnoviamo questa scelta di diserzione in un contesto molto diverso, a fianco di Youth of Sumud, che ha fatto questa scelta ben sapendo quali fossero le conseguenze, e di Operazione Colomba.
Noi possiamo e dobbiamo agire.
La possibilità che una persona anneghi senza che nessunǝ possa testimoniarlo, senza che nessunǝ abbia fatto nulla per soccorrerla, è la denuncia che un confine e un passaporto affermano la superiorità di un essere umano verso un altro. Questo fonda la nostra società sulla possibilità che alcune persone godano dei propri diritti a discapito della sofferenza di altre, rendendo accettabile l’utilizzo della forza per opprimere l’altrǝ, avallando il presupposto per cui non saremmo tuttǝ uguali.
Rispondiamo dunque a una chiamata per apprendere come “esistere per resistere”, per imparare come far vivere una comunità con poche risorse, studiare ed educarsi senza luce e internet, trovare la forma di rispondere a un fucile spianato quando si è disarmatǝ.
Non possiamo concederci il lusso di credere che ognuna di queste cose non serva a noi personalmente e alle nostre comunità. Questa lotta compiuta dalla popolazione palestinese è la lotta di ognunǝ di noi.
La lotta per la liberà di movimento, così evidente in mare, diventa altrettanto esplicita nell’immagine di unə bambinə palestinese che deve impedire alla propria pecora di brucare l’erba nel proprio campo dove questa è più verde, perchè i coloni altrimenti attaccano i pastori. Questa lotta è anche per la dignità di tuttǝ noi, la lotta per l’affermazione di un diritto a essere umani più importante di ogni nazione e di ogni legge degli Stati e che oggi il diritto internazionale, peraltro, in gran parte riconosce, di fronte in particolare a un’occupazione militare illegale e illegittima che dura da decenni.
Con la nostra presenza ad At-Tuwani proveremo a ricordare ancora una volta a tuttə, nel nostro piccolo, che libertà di movimento e diritti fondamentali di ogni persona umana devono essere universali, altrimenti non sono diritti ma privilegi, e che il loro rispetto precede e va oltre ogni norma imposta dai singoli Stati.