A cura di Carlo Caprioglio, Tatiana Montella ed Enrica Rigo | 02 / mag / 2023

La Strage che diventa legge

Articolo pubblicato su Jacobin Italia il 28 aprile 2023

Il governo vara un decreto che porta il nome del luogo in cui è avvenuto il naufragio di Cutro: l'eccidio diviene costituente per colpire ancora con violenza migranti e solidali.

L’immagine di Giorgia Meloni che abbraccia i bambini di Addis Abeba e le parole di Francesco Lollobrigida, ministro neonominato della «sovranità alimentare», che invitano a fare figli per non piegarsi alla «sostituzione etnica» fanno da sfondo, in questi giorni, alla discussione parlamentare per la conversione in legge del cosiddetto decreto Cutro. Difficile pensare a immagini e parole più efficaci per descrivere la saldatura in atto tra violenza neocoloniale e patriarcale. Una violenza che non solo si fa legge ma che, in qualche modo, rivendica di essere una legge sopra le altre. Diversamente da altri «pacchetti» sulle migrazioni, che ricordiamo con il nome dei ministri dell’interno in carica, da Maroni a Salvini passando per Minniti e Lamorgese, il decreto Cutro porta il nome di un luogo. Proprio come le battaglie, che vengono ricordate con il toponimo dei territori conquistati, o le città, che celebrano con il loro nome i patti dei vincitori sui vinti, si tratta di un provvedimento con forza di legge che verrà ricordato con il nome del luogo che il governo ha eletto a sede di un Consiglio dei ministri tenutosi sul teatro di una strage. È il portato di un eccidio che diventa legge; la violenza costituente della legge di conquista, nel senso quasi letterale dell’unione di «ordine» e «localizzazione» – verrebbe da dire, scomodando Carl Schmitt.

La criminalizzazione delle migrazioni

Ogni analisi, politica o giuridica, delle disposizioni che stanno per passare al vaglio del Parlamento non può che partire da questa matrice violenta e autoritaria, che non si risolve certo sul piano simbolico. Nonostante la lotta ai trafficanti sia la chiave retorica che ha legittimato la calata del governo a Cutro, le disposizioni del decreto che innalzano le pene fino a trent’anni (e oltre) per il favoreggiamento delle migrazioni irregolari sono quelle che meno hanno suscitato dibattito politico, quasi a segnalare che la lotta ai trafficanti mette tutti d’accordo. Eppure, basterebbe rammentare che sulla base dell’art. 12 del Testo Unico immigrazione, sul quale interviene il decreto introducendo una nuova fattispecie di reato aggravata, sono state messe sotto accusa le reti di solidarietà e di supporto alla mobilità dei migranti. È, infatti, configurando il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare che le procure hanno incriminato le Ong del soccorso in mare, che in alcuni casi si trovano ancora sotto processo o inchiesta, come nel caso dell’equipaggio della Iuventa o di Mediterranea. 

Quando a finire sotto accusa sono i migranti che forniscono supporto o che prestano solidarietà ai connazionali, il risultato è poi quasi sempre il carcere, come è accaduto per 4 rifugiati eritrei, condannati in due diversi gradi di giudizio e incarcerati per 21 mesi prima che la Cassazione li riconoscesse non colpevoli all’esito di un processo durato sette anni (come abbiamo raccontato dalle colonne di Jacobin Italia). Lo stesso vale per chi, durante la traversata, si mette alla guida dell’imbarcazione e che ora rischia il carcere a vita, anche a prescindere da qualsivoglia scopo di profitto o dal ruolo giocato nell’organizzazione del viaggio.

Vale tuttavia la pena chiarire che quelli che riguardano le Ong, gli attivisti o semplicemente i connazionali che prestano aiuto ad altri migranti non sono episodi di «mala giustizia», ed è oltremodo fuorviante la tendenza a rappresentarli come tali. La costruzione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare come reato che protegge le frontiere – anche a scapito dei diritti e della vita stessa delle e dei migranti – non è l’esito di una rappresentazione «errata» dei fatti. Al contrario, è la rappresentazione naturalizzata delle morti in mare alla stregua di «incidenti», la cui responsabilità ricade in ultima istanza sui migranti che si sono fatti circuire da criminali senza scrupoli, e che gioca un ruolo co-costitutivo nel processo di criminalizzazione. Un dispositivo che colpisce indiscriminatamente chiunque supporti la fuga dei migranti, che illegalizza la trasgressione dei confini in quanto tale – anche quelli interni allo spazio europeo – mentre ne dissimula la carica politica e trasformativa operando una semplificazione che divide i migranti in vittime e carnefici e ne disconosce ogni protagonismo politico. 

A contare in questo dispositivo di criminalizzazione non è affatto che si arrivi a condanna, ma è bensì la disgregazione delle reti e dei legami comunitari e lo smantellamento della logistica del movimento dei migranti, così come mostrano le inchieste sulle Ong che, indipendentemente dall’esito dei processi, hanno già raggiunto il risultato di fermare le navi e ostacolare i soccorsi.

 Qualcosa di simile si può dire per la detenzione amministrativa nei centri di rimpatrio (Cpr), che il decreto Cutro torna a estendere sia in riferimento ai termini massimi di trattenimento che alle circostanze in cui possono essere trattenuti i richiedenti asilo, oltre che i migranti in attesa di rimpatrio. Quando lo scopo diventa la criminalizzazione come tale delle migrazioni, a poco valgono le critiche che denunciano l’incongruità dei fini dichiarati della detenzione amministrativa nell’accrescere le prospettive di rimpatrio e che, anzi, non fanno che confermare le linee di continuità dei diversi governi nella gestione delle migrazioni. Da questo punto di vista, così come in generale sulle politiche di frontiera, è indiscutibile che l’opposizione parlamentare all’attuale governo sia in debito di credibilità. Salvo riconoscere che in epoca di fascistizzazione la simbologia del potere acquisisce una materialità pregnante: se è infatti innegabile che la decisione di aprire un centro di rimpatrio per ogni regione fosse originariamente del ministro Minniti, attuarla con un decreto che porta il nome di una strage ha un sapore lugubre. Ancora una volta, come le pedine di un risiko, i Cpr, gli hotspot e gli altri luoghi di confinamento dei migranti segnalano nuovi territori conquistati, nuove linee di demarcazione che allargano il perimetro degli spazi assoggettati a una legge il cui scopo è la subordinazione tramite la violenza. 

La logica dell’abrogazione della protezione speciale

Dietro la retorica della lotta ai trafficanti il decreto Cutro persegue però anche un altro obiettivo radicale. Il fulcro della riforma in discussione alla Camera è, infatti, l’abrogazione di quella parte dell’art. 19 del Testo Unico Immigrazione che prevedeva il riconoscimento della protezione speciale sulla base dei legami relazionali, affettivi, e dell’inserimento lavorativo e sociale delle persone migranti in Italia. Un intervento che, come segnalato da più parti in queste settimane, pone due ordini di problemi diversi. Il primo, di carattere prettamente giuridico, dato dal contrasto con l’art. 10 della Costituzione che impone all’Italia di conformarsi ai trattati internazionali, da cui discende l’obbligo di tutelare il diritto alla vita privata e familiare delle persone migranti. Il secondo, rappresentato dall’impatto sociale che la riforma avrà nel costringere decine di migliaia di persone all’irregolarità, la maggior parte delle quali lavoratori e lavoratrici, a causa anche della contestuale stretta sulle ipotesi di convertibilità dei permessi di soggiorno. 

A rimanere assente dal dibattito che in queste settimane ha denunciato l’illegittimità e gli effetti perversi della riforma è tuttavia il contesto di più lungo corso, che ci ricorda che la protezione speciale di cui si parla altro non è che l’esito delle varie riforme della protezione umanitaria, abrogata nel 2018 dal ministro Salvini come istituto di carattere generale e nuovamente ridefinita nel 2020 dal Decreto della ministra Lamorgese sotto il nome di protezione speciale. L’istituto, pur rispondendo a nomi diversi, ha rappresentato negli ultimi 15 anni uno dei principali strumenti di gestione delle migrazioni in assenza di vie di accesso legali. A partire dalla crisi economica del 2007/2008, alla tendenziale chiusura dei flussi di ingresso per motivi di lavoro è infatti corrisposto, in modo quasi speculare, un costante aumento dei permessi rilasciati per motivi di protezione internazionale e umanitaria. Nell’arco del decennio tra il 2007 e il 2017, il rapporto tra permessi per lavoro e per protezione internazionale e umanitaria si è invertito: se i permessi per lavoro sono passati dal 56,1% del 2007 al 4,6% nel 2017, la percentuale di quelli rilasciati per protezione è aumentata dal 3,7 al 38,5%. Un processo avvenuto rapidamente che, con la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, ha subito un’accelerazione decisiva: nel solo biennio 2014-2015, infatti, si è avuta una contrazione di oltre il 60% dei permessi per lavoro, seguita poi da un ulteriore calo del 41% l’anno successivo. 

In questo quadro, la protezione umanitaria (oggi speciale), se sul piano giuridico ha fornito attuazione all’asilo costituzionale, come più volte ribadito dalla Cassazione, su quello politico è stata lo strumento di governo di fenomeni sociali diversi. Nel 2011, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza per la situazione in Nord Africa, il rilascio di permessi per motivi umanitari ha consentito di gestire i crescenti movimenti migratori innescati dalle rivoluzioni arabe. In quegli stessi anni, la protezione umanitaria veniva tuttavia già utilizzata per regolarizzare i braccianti migranti, a partire da quelli che avevano animato la rivolta di Rosarno del dicembre 2010, per proseguire negli anni successivi con la cosiddetta sanatoria delle campagne in risposta alle mobilitazioni dei lavoratori in diverse zone del sud. Di nuovo, la protezione umanitaria è stata largamente utilizzata nel 2014 per riconoscere uno status alle donne ucraine già presenti in Italia e impiegate come lavoratrici domestiche. In altre parole, la protezione umanitaria è stata lo strumento di una sorta di sanatoria a «bassa intensità», che ha consentito di ottenere un permesso di soggiorno a lavoratori migranti in diversi settori, dall’agricoltura al lavoro domestico e di cura, fino alla logistica, intrecciandosi alla gestione del mercato del lavoro in ambiti sociali caratterizzati da una conflittualità strutturale. 

Due le principali conseguenze di questa modalità di governance. Se da un lato, è stata il terreno di negoziazione che ha permesso a centinaia di migliaia di migranti di regolarizzare la propria posizione sul territorio; dall’altro, ha precarizzato l’accesso ai diritti di cittadinanza che passa per l’acquisizione di uno status giuridico stabile, come il permesso di soggiorno di lungo periodo, e che, agevolando il ricongiungimento familiare, consente il radicamento sul territorio. La gestione delle migrazioni e della forza lavoro attraverso il dispositivo umanitario ha, inoltre, determinato una commistione tra politiche dell’asilo e politiche del lavoro, che ha avuto come effetto, tra gli altri, di disgregare le reti di autorganizzazione dei migranti, sparpagliati sul territorio nazionale e costretti nelle dinamiche di mobilità/immobilità imposte dal sistema di accoglienza. In alcuni casi, i centri di ricezione del sistema asilo si sono trasformati in centri di reclutamento di manodopera a basso costo, soprattutto in produzioni stagionali come l’agricoltura e il turismo. Infine, il riconoscimento della protezione umanitaria è stato in larga parte rimesso ai Tribunali di merito, anche in conseguenza dell’approccio restrittivo delle Commissioni Territoriali, organi, questi ultimi, che dipendono dal Ministero dell’Interno e dunque vincolati alle direttive governative. La delega ai giudici di una questione che interseca gestione delle migrazioni, mercato del lavoro e processi riproduttivi ha determinato una giurisdizionalizzazione di fatto dell’antagonismo sociale, nel senso della sua riconduzione all’interno di un sistema che per definizione istituzionalizza e proceduralizza il conflitto. 

Uno sguardo di contesto sull’abrogazione della protezione speciale consente dunque di mettere a fuoco come sia stata uno strumento di gestione della conflittualità sociale: utilizzata come risposta parziale alle istanze di chi arrivava o era già presente sul territorio, la governance umanitaria delle migrazioni ha raggiunto altresì lo scopo di prevenire e limitare le forme di autorganizzazione dei migranti che, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, si erano mobilitati soprattutto per ottenere il permesso di soggiorno. Non è forse un caso che la violenza materiale e simbolica che il governo ha esibito in risposta alla strage di Cutro abbia innescato nuove risposte di piazza. Al presidio organizzato dalle associazioni e dalla società civile il 18 aprile scorso, in corrispondenza della discussione del decreto Cutro al Senato, i movimenti dei migranti hanno fatto seguire una chiamata per una manifestazione nazionale che si terrà il 28 aprile a piazza dell’Esquilino a Roma. Quello che sembra riaprirsi è dunque un nuovo spazio di conflittualità e mobilitazione sociale.

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