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Il gelido – e dimenticato – inverno afghano, secondo il World Food Programme, rischia di trasformare la situazione del Paese (già stremato da 40 anni di conflitto) da “fallimento collettivo” a “catastrofe”, con 22.8 milioni di persone esposte a insicurezza alimentare, 9.7 milioni di bambini privi di assistenza sanitaria e 18.4 milioni civili bisognosi di aiuti umanitari. Gli sfollati interni, secondo i dati Unicef, sono più di 3.5 milioni, di cui circa 700mila costretti a fuggire durante lo scorso anno. Uno scenario persino peggiore delle crisi umanitarie che hanno colpito Etiopia, Sud Sudan, Siria e Yemen. Entro giugno, riporta l’Onu, il 97% degli afghani sprofonderà sotto la soglia di povertà.
Dall’ascesa al potere dei Taliban, il Governo americano e le istituzioni legate agli Usa, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, hanno smesso di inviare aiuti e congelato tutto il denaro afghano depositato nelle banche americane e occidentali (9,5 miliardi di dollari soltanto negli Stati Uniti) per il timore di legami tra gli islamisti e il terrorismo internazionale. (Parte di questi soldi sono rivendicati anche da 150 famiglie delle vittime delle Torri Gemelle, che 20 anni fa fecero causa ad al Qaida e ai Talebani, con una sentenza della giustizia americana che dispose il risarcimento di 7 miliardi di dollari). Parallelamente, Haji Mohammad Idris, nuovo governatore della Banca Centrale dell’Afghanistan (noto alle cronache per avere presieduto per 20 anni la Commissione Economica dei Taliban “senza un’educazione superiore né una formazione classica in materia di finanza”) si trova a fronteggiare una politica monetaria disperata, con le banche chiuse sin dalla caduta del precedente regime, transazioni dall’estero bloccate, bancomat che stanno per finire i contanti e il valore della moneta afghana sceso ai minimi storici. Non da ultimo molti generi alimentari (condizionati anche dalla siccità che ha caratterizzato il 2021) tra cui grano, farina e olio, hanno raggiunto prezzi alle stelle, con un’inflazione che va dal +30% al +55%.
Tra le pieghe di questo crack finanziario, sanitario e umanitario imminente, tuttavia, si potrebbero celare scenari persino peggiori. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc), l’Afghanistan produrrebbe l’89% dell’oppio secco mondiale, seguito dal Messico (6%) e dal Myanmar (5%). Quella del papavero è praticamente l’unica industria nazionale in Afghanistan, con 2 milioni di lavoratori che gravitano attorno a questo settore e che assicura ai coltivatori introiti maggiori del 40% rispetto a chi non lo fa. La coltivazione, solo nel corso del 2020, mentre la pandemia imperversava, è aumentata del 37%. A luglio 2021, secondo Unodc, “il raccolto ha segnato per il quinto anno consecutivo una produzione ai massimi storici di oltre 6.000 tonnellate, potenzialmente producendo fino a 320 tonnellate di eroina pura da smerciare nei mercati di tutto il mondo”. I proventi degli oppiacei in Afghanistan “ammontano a circa 1.8-2.7 miliardi di dollari nel 2021”, pari al 7-11% del Pil del Paese. La “opium economy”, come è stata definita dagli analisti internazionali, ovvero l’economia dell’oppio, che nemmeno i 20 anni di occupazione sono riusciti a sradicare e in cui gli Stati Uniti hanno speso circa 9 miliardi di dollari in attività anti-narcotraffico, sta delineando quindi il nuovo volto dell’Afghanistan: un narcostato a cielo aperto in mano ai Talebani. Dimenticato, a un passo dalla catastrofe umanitaria, e che tiene in “ostaggio” 39 milioni di civili. Molti dei quali in procinto di morire di fame, specialmente bambini
Allo stesso tempo in ottobre Save the Children ha rilevato che oltre 14 milioni di bambini soffriranno la fame questo inverno e 5 milioni saranno a un passo dalla carestia, il +35% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. “L’impatto combinato di siccità, conflitti e collasso economico ha portato molte famiglie a una situazione critica che le costringe a ricorrere a misure drastiche pur di sopravvivere, vendendo quel poco che è rimasto loro per comprare cibo o mandando i figli a lavorare”. È di pochi mesi fa la notizia di otto fratelli orfani di madre e di padre, dai 18 mesi agli 8 anni, morti di fame ai margini di Kabul. Le cronache testimoniano anche di madri costrette a vendere un figlio in cambio di bestiame o di denaro per sfamare il resto della famiglia, matrimoni combinati e l’aumento di bambini e bambine reclutati come soldati.
Secondo l’ultimo rapporto della Scala di classificazione integrata della sicurezza alimentare (IPC) pubblicato dal Food Security and Agriculture Cluster of Afghanistan, guidato congiuntamente dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura e dal Programma alimentare mondiale dell’Onu, oltre metà della popolazione afghana – un record negativo di 22.8 milioni di persone – ha sofferto, da novembre, di insicurezza alimentare acuta. Dal rapporto emerge anche “che più di 1 afghano su 2 sarà vittima di insicurezza alimentare acuta a livello di crisi (IPC fase 3) o di emergenza (IPC fase 4) durante la stagione meno produttiva che intercorre tra novembre 2021 e marzo 2022, con conseguente necessità di interventi umanitari urgenti per soddisfare le esigenze alimentari di base, proteggere i mezzi di sussistenza e prevenire una catastrofe umanitaria”.
In questo scenario drammatico, l’arrivo dell’inverno, con temperature che possono raggiungere i 25 gradi sotto zero, non aiuta. Sempre secondo Save the Children, in Afghanistan quasi 800mila bambini stanno affrontando un inverno gelido senza ripari adeguati. Circa 8.6 milioni di bambini vivono in famiglie che non hanno coperte a sufficienza e più di 3 milioni non hanno il riscaldamento per tenersi al caldo. Gli aumenti dei prezzi e il collasso dell’economia hanno infatti spinto molte famiglie sul lastrico, senza potersi permettere combustibile o legna da ardere per riscaldare le case. I dati raccolti dalle Nazioni Unite registrano allo stesso tempo 1.6 milioni di persone che vivono in tende di emergenza o rifugi di fortuna, con scarsa protezione da pioggia, neve e temperature sotto lo zero. In alcune province, i bambini che dormono all’aperto senza vestiti invernali adeguati o senza il riscaldamento sono a grave rischio di ipotermia, infezioni respiratorie acute come la polmonite e, nei casi peggiori, di morte. In tutto ciò cala anche lo spettro anche dell’emergenza sanitaria Covid-19, con i Taliban che ostacolano le vaccinazioni e la vicina paralisi del sistema sanitario.
Fragile e afflitto da grandi lacune non da oggi, il sistema sanitario afghano è a rischio collasso, mentre i bisogni della popolazione restano enormi. Complici le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Occidente al nuovo regime, l’87% delle strutture sanitarie presenti nel Paese ad oggi ha chiuso. Erano 2300 prima dell’ascesa dei Taliban, oggi sono appena 300, di cui molte gestite dalla cooperazione internazionale. È questo l’allarme lanciato dalla rivista Lancet, che in uno studio registra “una riduzione dei servizi sanitari tra il 39% e il 52% che potrebbe significare un devastante aumento delle morti infantili fino a un totale di 2170 decessi al mese”. Lo stesso allarme è stato lanciato anche da Medici Senza Frontiere, che gestisce un centro nutrizionale a Herat dove i casi di malnutrizione sono aumentati del 40% rispetto all’anno precedente, con oltre 60 nuovi ricoveri a settimana.
“L’accesso alle cure mediche in Afghanistan era un grande problema già prima della presa di potere dei Talebani, ma oggi – segnala una nota di Msf i cui team svolgono attività mediche a Herat, Kandahar, Khost, Kunduz e Lashkar Gah – la situazione è ulteriormente peggiorata a causa della sospensione di gran parte degli aiuti internazionali, compresi i finanziamenti della Banca Mondiale per i programmi medici di base dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nella provincia di Herat”. E ancora: “L’ospedale regionale di Herat, dove Msf gestisce il centro nutrizionale, ha perso alcuni dei suoi collaboratori chiave, come il direttore e alcuni dei medici più esperti, fuggiti prima dell’arrivo al potere dei Talebani. Al di fuori del centro nutrizionale di Msf, gli stipendi non vengono pagati da cinque mesi, non ci sono abbastanza forniture mediche, né soldi per pagare i lavori di manutenzione”.
L’esodo, oggi, resta l’unico scenario per sfuggire alla morte. All’interno del Paese, secondo Unhcr, ci sono più di 3.5 milioni di persone sfollate dal conflitto, tra cui circa 700.000 costrette a fuggire nel 2021 e composte per l’80% da donne e bambini. Le vie di fuga possibili sono oltrepassare i confini con il Pakistan, il Tajikistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan e l’Iran. L’Onu ha esortato i vicini dell’Afghanistan a mantenere aperte le frontiere ai rifugiati e ha invitato la comunità internazionale a sostenere quei Paesi. Anche se è la rotta migratoria che porta a Ovest, quella che dall’Iran porta in Turchia, a preoccupare maggiormente il vecchio continente. Le possibilità per gli sfollati giunti sino in Turchia sono molteplici, tutte gestite dai trafficanti di uomini e, rispetto ad anni fa, ancora più pericolose, dato che diversi Paesi di transito stanno rinforzando i propri confini. Chi può permetterselo dalla Turchia cerca di raggiungere l’Italia direttamente via mare, esponendosi a tutti i rischi ad esso connessi. Altri invece sono costretti a percorrere la via di terra, la tristemente nota Rotta Balcanica, che attraversa la Grecia oppure la Bulgaria in direzione della Serbia per poi imboccare il confine ungaro o croato.
Una volta giunti alle porte della democratica Europa, dopo avere fronteggiato 40 anni di conflitti, dominazioni e guerra civile, avere abbandonato le proprie case, percorso migliaia di chilometri, essere sfuggiti dalla morsa di quegli stessi Talebani che l’Occidente condanna per le ripetute violazioni dei diritti e per le responsabilità nella crisi umanitaria più grande di sempre, si può sperare dunque che i profughi afghani trovino accoglienza? Ad attendere chi è arrivato via terra si ergono muri, si intensificano le violazioni dei diritti fondamentali, e c’è “The Game”, un termine che gli stessi migranti usano per riferirsi al rimpallo avanti e indietro tra la terra di nessuno e i confini europei lungo la Rotta Balcanica. Un rimpallo che significa molto spesso torture, furti, umiliazioni fisiche e psicologiche, da parte di poliziotti e militari. Ad attendere chi ha scelto il mare, invece, si schiudono le acque del più grande cimitero d’Europa. Nel mezzo, una cosa sola è certa. Da un remota cittadina del Panjshir fino alle porte dell’Europa la disperazione resta la stessa, mentre i nomi dei carnefici lungo la via, quelli, sono destinati a confondersi.