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La missione a Bihać in Bosnia Erzegovina, organizzata da Mediterranea Saving Humans, si è svolta dal 29 novembre al 04 dicembre 2021 con l’obiettivo di osservare e testimoniare le condizioni di salute psico-fisica dei rifugiati bloccati al confine tra Bosnia e Croazia.
L’equipe era composta daCarolina Migliorino assistente sociale, dal Dott. Claudio Pardini medico di base e dalla dott.ssa Eliana Cannazzaro medica specializzanda.
Bihać è una piccola citta a nord della Bosnia, al confine con la Croazia; la sua storia è caratterizzata da tre anni d’assedio, durante la guerra civile, che ne hanno condizionato lo sviluppo economico e sociale. Tutt’ora, infatti, l’economia non riesce a ripartire. Moltə dellə abitanti, negli anni, hanno deciso di emigrare all’estero, in Germania, Austria, Croazia e Slovenia o, semplicemente, hanno deciso di spostarsi a Sarajevo alla ricerca di condizioni di vita ed opportunità migliori.
Negli ultimi 10 anni Bihać ha perso più della metà della sua popolazione. Dal punto di vista architettonico la città sta vivendo un periodo di ricostruzione grazie ai finanziamenti del governo e all’interesse turistico crescente derivato dal vicino “Una National Park”, il parco naturalistico del fiume Una.
Trovandosi al confine con la Croazia, ed essendo la Bosnia il primo Paese non appartenente all'Unione Europea, Bihać sta vivendo, da alcuni anni, un periodo storico molto controverso essendo un punto di passaggio quasi obbligato della nuova “Rotta balcanica” seguita da migranti provenienti dall’Asia e dal Medio Oriente.
La nostra équipe, impegnata nella missione, ha svolto gli interventi di monitoraggio ed assistenza nell’arco dei quattro giorni concordati, con una frequenza di supervisione di 3 alloggi al giorno, abitati da circa un centinaio di persone.
Rispetto alle condizioni degli accampamenti visitati è necessario evidenziare alcuni aspetti:
Nel nostro lavoro di supervisione, relativamente alla provenienza dellə migranti visionatə, abbiamo potuto notare la quasi totalità dellə intervistatə è di nazionalità siriana, iraniana, afgana e pakistana. Tuttə hanno seguito il percorso migratorio della Rotta balcanica, moltə sono in viaggio da almeno due anni con la speranza di raggiungere l’Italia, la Francia, il Belgio o la Germania. La maggior parte dellə migranti intervistatə ha un’età compresa tra i 20 ed i 23 anni. Abbiamo incontrato soltanto un adulto sui 50 anni ed una famiglia composta da quattro minorenni ed i genitori.
Dalle interviste è emerso un aspetto curioso e drammatico allo stesso tempo. Il nome che viene dato dai migranti al momento finale della Rotta balcanica, ovvero il passaggio del confine con la Croazia o la Slovenia per entrare in Europa, è “The Game”. Il tentativo di attraversamento del confine viene definito come un gioco, pieno di pericoli ed ostacoli da affrontare, che una volta riuscito permette di raggiungere la vittoria: raggiungere l’Europa. Lə migranti che arrivano a Bihać provano continuamente il “Game” in modalità differenti:
Tra lə profughə ascoltatə, alcune testimonianze sono state significative e meritano di essere riportate per inquadrare al meglio le condizioni di vita dei profughi in questa zona della Bosnia:
Mustafa dice: “dopo vari tentativi di attraversamento non riusciti, prima che arrivi la neve, proverò ad aggrapparmi sotto un camion”. Anche questa è un’ulteriore opzione per tentare di superare il confine, soprattutto in questo periodo dell’anno in cui si teme l’arrivo dell’inverno torrido con neve, freddo e temperature abbondantemente sotto lo zero.
Rashid, un uomo cinquantenne, ci racconta: “Vivevo in Italia e lavoravo all’interno di una fabbrica. Sono rientrato in Afganistan per rivedere la mia famiglia ed ho avuto un incidente col motorino; per tale ragione non sono riuscito a rientrare in Italia e, visto il permesso di soggiorno scaduto, sono stato costretto a provare diverse volte il “game” senza riuscire a passare. Non posso cedere, la mia famiglia mi aspetta in Afghanistan e spera di raggiungermi una volta che rientro in Italia”. A lui è stato suggerito di provare a contattare l’azienda dove lavorava per ottenere il contratto di lavoro e richiedere di conseguenza il permesso di soggiorno per potere rientrare in Italia.
L’unica famiglia conosciuta ed intervistata è composta da due bambinə, due adolescenti ed i genitori. Nei loro volti si evince la fatica e la stanchezza del viaggio che dura da tre anni, lə bambinə sono cresciuti nel viaggio tra continui divieti e odio della gente. Nonostante gli svariati tentativi falliti di attraversamento del confine e l’aver subito qualsiasi forma di violazione dei propri diritti rimangono positivi.
Dalle interviste, infine, è emerso come tutti lə migranti temano la polizia croata, accusata di minacce, furti e violenza. Alcunə affermano come le forze dell’ordine croate adottino anche sistemi di dissuasione fisica tecnologicamente avanzati ed al limite della legalità come i taser e gli storditori elettronici oppure sistemi di sorveglianza da remoto come videocamere notturne, rendendo questo territorio uno dei più difficili da attraversare del mondo. Oltre alla paura della polizia, moltə migranti temono anche lə altrə profughə, che spesso derubano lə più fragili e indifesə in una guerra tra disperatə sempre più drammatica.
Tuttə coloro che sono stati ascoltatə sono consapevoli, per il futuro, che dovranno cercare subito un lavoro, ma nessunə di loro ha una precisa prospettiva ed una visione di cosa sia necessario per poter rimanere legalmente in Europa. Per tale ragione è stato necessario fornire loro le indicazioni fondamentali sia dal punto di vista legale e burocratico (documenti, permessi di soggiorno, etc.), sia dal punto di vista sanitario e scolastico.
Per quanto riguarda il contesto territoriale, infine, Bihać appare come città ostile e non propensa a qualsiasi tentativo di integrazione e/o socializzazione, anche minima, tra migranti e popolazione locale. Non esiste alcun tipo di contatto tra lə profughə ed lə cittadinə, l’assistenza e la gestione del fenomeno è totalmente nelle mani del governo bosniaco che non permette ingerenze esterne nella gestione e nel monitoraggio. Tutte le organizzazioni non governative presenti, sia locali che straniere, che svolgono un servizio di assistenza, anche minima, lo fanno illegalmente senza alcun tipo di coordinamento con un preoccupante accavallamento di azioni. Sarebbe ottimale creare una rete, un coordinamento con un comitato tecnico che riconosca le varie associazioni e ripartisca ruoli, competenze, risorse e personale. Questo porterebbe davvero un buon servizio per lə migranti e darebbe una piccola speranza in un contesto di disperazione che sembra non aver una via d’uscita.